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STRADE DELLA ROMA PAPALE

Via Tor di Nona (R. V – Ponte) (da via del Maestro a via dell’Arco di Parma)

 

Via Torna di Nona, e lungotevere omonimo, restano a memoria della località dove sorgeva la Torre omonima [1].

Nel XV secolo, la strada di Tordinona era chiamata “via Recta iuxta flumen” ed il nome della Torre è attribuito, da alcuni, all’essere  la Nona torre sul Tevere, dà altri, perché  ricordava  l’ora Nona,  nella  quale,  nei  pressi,  Federico  Barbarossa (1121-1190) aveva sopraffatto l’esercito romano.

Altri ancora affermano esser “Nona” un’abbreviazione di “Annona”, perché funzionava una volta da magazzino del grano e di tutti quei prodotti, che, sbarcati lì dal Tevere, dovevano essere sottoposti alle gabelle.

Poiché la torre apparteneva al sistema di difesa degli Orsini, che arrivava fino a Monte Brianzo, ed un Orsini, Giordano, fu, nel 1347, “prefectus annonae” è più probabile che Annona fosse stata l’etimologia di Nona [1bis].

Nella demolizione dell’edificio, si è visto che fu costruito su grossi parallelepipedi di tufo, avanzi di un porto di sbarco [2] che, negli scavi fatti, apparve di salda costruzione e che doveva essere stato quel porto dei marmi che venivano avviati alle officine degli statuari e quadratari (scalpellini). Costruzione che doveva essere proporzionata agli enormi massi “che si dovevano sollevare dalle navi e trasportare nei cantieri”.

Risultarono pure fra i materiali della torre “moltissimi frammenti di bellissime statue, che avevano servito per la costruzione di quella torre istessa, alzata, per quanto si crede da taluno, nel secolo VIII per difendersi dalle incursioni dei Saraceni, che avevano ardito di spogliare la chiesa di S. Pietro in Vaticano”.

La presenza di queste statue ebbe spiegazione quando, nell’abbattimento del Teatro Apollo, per la costruzione dei muraglioni, fu trovato un tempietto circolare dedicato al culto di Bacco, che lì doveva sorgere nel III secolo d.Ch..

La torre, che difendeva la posterula “Dimizia”, passò, per lascito dagli Orsini, nel 1395, all’Arciconfraternita del Salvatore e nel catasto, del 1410, di detta compagnia, è scritto: “...item unam domum cum turri que fuit olim Iohis Iacobelli de Ursinis que dicitur - la presone de lo papa - cum salis cameris et mignano et orto” (Gregorovius).

Infatti quando la torre con gli annessi passarono all’Arciconfraternita del Salvatore, vennero dati in fitto per 8 anni a Gian Paolo Carbone, con l’incarico di trasformare il tutto in una prigione, nel termine di due anni.

Ma forse anche Orso Orsini, che nel 1278 era stato creato dallo zio Nicolò III [3] (Giovanni Gaetano Orsini - 1277-1280) “marescalcus iustitiae”, doveva, almeno in parte, aver già adibito l’edificio ad uso di carcere.

Certo, che nel 1420, al ritorno di Martino V (Oddone Colonna - 1417-1431) a Roma, i fabbricati ebbero notevoli riparazioni ed ampliamenti, ad uso di prigione.

Nel suddetto catasto dell’anno 1463, si legge: “In primis una casa o torre con orto e claustro, detta torre di nona, vicino al fiume; la tiene in affitto il Soldano del Papa [4], per ducati 24 all'anno” [5].

Da Alessandro VI (Rodrigo Borgia - 1492-1503), nel 1494, fu data la carica di Soldano a Carlo Canale, nobile mantovano, successore di Domenico Giannozzo signore d’Arignano e Giorgio de la Croce.
Vannozza Cattanei, amante di Alessandro VI (Rodrigo Borgia - 1492-1503) che aveva sposato Domenico Giannozzo in prime nozze, Giorgio de la Croce in seconde nozze e Carlo Canale, in terze nozze (sempre su proposta del Papa suo amante), aveva predisposto messe di suffragio, da celebrarsi insieme alle proprie, per la redenzione dei suoi due ultimi  coniugi, ogni anno, in Santa Maria del Popolo [6].
Il Carlo Canale, già scrittore della Penitenzieria, nominato Soldano, andò ad abitare “appresso al carcere di Tordinona”, in un immobile che la moglie Vannozza, quando era “de la Croce” (1483), aveva preso in fitto, vita natural durante, al canone di 10 ducati l’anno.
La Vannozza che aveva adibito l’immobile, come suo solito, ad albergo, “per il nuovo matrimonio... decise di abitarvi”. Nel nuovo contratto stipulato con l’impegno, da  parte sua, di spendere almeno 300 ducati per miglioramenti del fabbricato, essa vi andò ad abitare. “L'esercizio della Vannozza durò 23 anni fino cioè al 1506”.

Il Soldano riceveva un compenso mensile, che variò secondo i tempi, in più riscuoteva le tasse giudiziarie, affittava delle camere speciali ai carcerati, dava a nolo i letti e forniva il vitto agli abbienti, mentre per i poveri riceveva i denari “in deductione illorum que ratione custodie dictarum carcerum a Camera (Apostolica) praedicta recipere et habere debebit”. Doveva però stipendiare il personale dipendente.
Egli aveva alle sue dipendenze un luogotenente (Locustenens iurisperitus), capitano di giustizia, custodi e, fra gli inservienti, un barbiere e i cursori che dovevano “rimettere personalmente le citazioni e le intimazioni e non per mezzo di amanuensi, detti giovani; e scrivere senza abbreviature, ma per esteso secondo la forma degli originali” e per gli ebrei se "non si trovassero o facessero negare - disponeva il Governatore - siano affisse alle porte del Ghetto”.
Anche il Bargello aveva stretti rapporti col Soldano e doveva fare “per il Fisco [7] esecuzioni et ogni altra cosa, etiam per castigo dei rei, et dar la corda et ferrare et sferrare li carcerati senza pagamento alcuno” cioè oltre il compenso fisso, che veniva però integrato da diritti e diarie per altre operazioni.
Non poteva però operare per “qualsiasi mandato in festa di precetto, eccetto sospetto di fuga" e di “pigliare nessuno in casa sua propria, stando le porte serrate, se non quando fosse stata citata la parte, ovvero per li debiti della Comunità”.

Nel carcere, dopo gli ampiamenti ed i rifacimenti, nel ‘500, la porta di accesso stava "di prospetto alla via pubblica" e si notavano due cancelli con "traverse innestate a modo di fenestrelle" vigilati da custodi “che ne avevano le chiavi, e senza de’ quali non era possibile entrare e uscire”. "Fra i medesimi cancelli si trovava la stanza volgarmente detta della cancelleria, ove un cancelliere, all’uopo deputato, annotava nomi e cognomi di tutti i carcerati” (Adinolfi).

Carceri separate avevano donne, giovanotti, uomini e religiosi-preti. Questi ultimi, prima del supplizio, venivano “degradati” o nello stesso carcere, o a S. Salvatore in Lauro e qualche volta a S. Pietro [8]

Il boia faceva il lavoro sia per il carcere di Tordinona che per quelli di Corte Savella e di Castello. Oltre la paga fissa ed al rimborso delle spese vive, godeva dei supplementi: per bruciare un cadavere, per una decapitazione o un’amputazione, per una frustatura, per taglio di orecchi, per impiccagioni, per squartamenti ecc. Così nel 1500 “per avere preparato lo strascicamento di un condannato, alla corda di un cavallo e poi appiccatolo, baiocchi 50”, mentre per frustare e forare la lingua ad  un  bestemmiatore  gli  furono  dati  cinque  giuli  (qualche  centesimo  più  di Lit. 2,50).

A Tor di Nona il condannato veniva appiccato ai merli e spesso erano 3, 4 e più questi pendagli, ed a ciascuno: “Causa ipsius mortis in quadam cartula apud pedes eius apposita est”. (la causa della morte è scritta in un cartello appeso ai piedi del condannato)

Così accadde a Girolamo di Tuscio detto Roscio che: “Cumque ipsum pacifice duxisset ad dictam turrim; statim accepto laqueo in merulis ibi existentibus ipsum suspendit”.  (dal diario di Stefano Infessura - c.1435-c.1500).

E così pure, collettivamente, nell’aprile 1497, per mano del duca di Candia, che “piglioe de nocte manibus propriis alcuni staffieri de Sforcino (arcivescovo G. M. Sforza) et condusseli in presone, et il zorno seguente fureno impiccati a li merli dei torre de Nona senza alcuno respecto, ancora che Ascanio Sforza per mezzo dell'oratore ducale facesse ogni prova presso Nostro Signore per liberarli et camparli”.

E, come loro, infiniti altri [9], che, in seguito, invece che col laccio, furono soppressi sul ceppo messo nel cortile.

Nel cortile, quando non doveva essere pubblica, si eseguiva la frustatura delle cortigiane, con lo staffile o con l’ortica, col monito che,  se il boia non lavorava bene, subiva la stessa pena.

Nel reparto detto “in cima della torre” era lo stanzone dei tormenti, dove venivano applicate le diverse pene, compresa la più terribile, quella della “Veglia[10].

Ne erano esenti i malati di epilessia, asma, i cardiaci “ancor che minimi, come palpitazioni, tremori, lipotimia e sincope”. Si escludevano pure i rotti (erniosi), i minori di anni 25, le donne incinte, le puerpere e gli anziani.

Il tempo che doveva durare il supplizio, era stabilito dalla Sacra Congregazione dell’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor Governatore.

Il reo, nudo, e rasato [11]et anco ne le parti inferiori” (per evitare  incantesimi[12]) viene fatto sedere sullo sgabello (tripode) detto "Veglia", e reso fermo da una grossa pietra posta su due traverse inchiodate inferiormente, mentre la cima della Veglia è fatta a punta di diamante, inchiodata e larga due palmi, ma in modo che le punte dei chiodi non feriscano il paziente. Questi, legato a quattro corde attaccate a quattro rampini conficcati nel muro a destra, sinistra, avanti e dietro del reo, resta semisospeso a causa di quei quattro canapi che legandogli mani, piedi, braccia e spalle lo fanno gravare sulla punta di diamante.

Ogni 6 o 7 ore pane inzuppato in vino tiepido e generoso, quindi ripresa del tormento, finché il Giudice, che con il Notaio, presenzia l’operazione, fa ricoverare il soggetto all’infermeria in un letto ben caldo, ponendogli addosso un materasso finché, ben riscaldato, non gli fa dare un brodo di pollo e uova per averlo, resistente ancora, pronto per un’altra seduta.

Dopo la regolamentazione dei supplizi, fatti da Giulio III (Giovanni Maria Ciocchi dal Monte - 1550-1555) nel 1555 e da Paolo V (Camillo Borghese - 1605-1621) nel 1605, i tormenti vennero attenuati e la tortura non durò più di un’ora.

Il cavalletto, oltre che in piazza, veniva applicato anche “in cima alla torre" e consisteva "nel tenere sollevata una persona da terra, legandola di dietro per le mani; le quali venivano a sostenere l'intero peso del corpo, in modo che le braccia si slogassero”. E così pure la pena della corda dove si legava il condannato al torace, lasciandolo cadere dall’alto, fino all’arresto, dolorosissimo, provocato dalla corda. Tale tortura per disposizione di Paolo V, si doveva applicare specialmente “contro i rei delle crassationi (corruzioni) et altre”.

Nella torre avevano pure residenza il tribunale del Vicario, del Governatore e dell’Auditore di Camera che giudicavano i delitti e stabilivano pene e torture dei prigionieri.

Se imputati di gravi reati o condannati a morte i reclusi erano tenuti in prigioni segrete,  e nelle prigioni pubbliche gli altri.

A quelli delle Segrete per un giulio veniva dato: “due pagnotte e mezzo di pane al giorno; vino puro senza difetto, 2 fogliette, minestra la mattina, insalata con aceto e oglio bono la sera, 1 libbra di carne di vaccino o d'agnello fra pranzo e cena, secondo i tempi”.

Naturalmente il venerdì e il sabato e negli altri giorni di magro: “1 libra di pesce fra pranzo e cena e, non trovandosene, se non a gran prezzo, saracile tonnina (tonno in polvere), alici, arrenghe in competente quantità; noci, fichi o passerina, secondo i tempi”.

E poiché i prigionieri erano distinti in tre categorie: poveri, non poveri e agiati, per i primi, che vivevano di carità, era stata posta una cassetta di una delle inferriate del piano terreno per raccogliere le offerte dei cittadini.

Le celle segrete erano divise in reparti, che avevano nomi distinti: “Gloria, Monichina, Inferno, Purgatorio, Paradiso, La Fiorentina ecc. ecc..”.
Fu chiamata “Galeotta” quella che custodiva i condannati al remo, prima dell’invio a Civitavecchia,  e  "Paliana"  l’altra che era stata abitata dal cardinale  Carlo Caraffa,  duca  di  Paliano, nipote di Paolo IV (Gian Pietro Carafa - 1555-1559), quando vi fu rinchiuso, il 25 gennaio 1561, da Pio IV e strangolato, nella sua cella [13].

Da Tordinona [14] partì per il supplizio Beatrice Cenci [15], che vi era stata trasferita da Castel Sant’Angelo, dove era stata quattro mesi. Il trasferimento fu dovuto, si dice, alla promessa di matrimonio, con 40.000 scudi di dote, da lei fatta al Governatore di Castello, Capponi, se l’avesse lasciata fuggire. Ma Tordinona la spedì  invece  sulla  Piazza  di  Ponte  l’11 settembre  1599,  da  dove  (dopo l’esecuzione), con imponente corteo, fu trasportata a S. Pietro in Montorio.

Giordano Bruno, il 9 febbraio del 1600, fu pure portato da Tordinona a Campo dei Fiori per essere bruciato. E ancora i nobili Fulvio Alberini [16], Marcantonio Massimo [17], Onofrio Santacroce [18] e tanti altri uscirono da queste prigioni per essere uccisi.

Nelle carceri pubbliche i prigionieri che si dicevano “stare alla larga”, erano spesso detenuti insieme e distribuiti fra i reparti detti: “Sala regia, Cucina vecchia, Passeggio, Pubblica di mezzo, Pubblica di basso, Stanza delle donne”.
"Pozzo" erano le prigioni collocate nella parte inferiore dell’edificio che, esposte all’invasione del fiume in piena, non davano sempre la possibilità di salvare i prigionieri. Infatti, nelle piene del 1485 e 1598, annegarono tutti i detenuti che vi si trovavano.
Il Pozzo, chiamato anche “il fondo” era, secondo l’Adinolfi il posto “per i perpetui condannati, dove i rei di maggiori delitti venivano gittati vivi a somiglianza dell'antico carcere tulliano”.

A Tordinona v’era anche una cappella dedicata a “Santa Maria dei Sette Dolori” dove tutti i giorni veniva celebrata una messa pro reclusi e dove ricevevano i carismi i condannati a morte, assistiti dai “confortatori” della Compagnia di San. Giovanni Decollato.

I confratelli che accompagnavano il condannato fino al patibolo gli davano, se eseguito a Piazza di Ponte, gli ultimi conforti religiosi nella chiesolina posta sulla piazza, presso le carceri, intitolata appunto a S. Giovanni Decollato.

Per gli infermi invece, funzionavano da infermeria alcuni modesti locali posti nella parte alta dell’edificio. Vi erano addetti un sacerdote, “che serve nell'infermeria" con 10 scudi mensili; un medico che "serve li poveri infermi di Tordinona, mezzo scudo al mese, oltre cinque da parte della Camera Apostolica"; “un chirurgo, mezzo scudo al mese, più sette scudi come sopra”.

Fin da Eugenio IV (Gabriele Condulmer - 1431-1447), era stata codificata l’assistenza che, ab antiquo, era prestata ai carcerati ed il Camerlengo in persona si recava nelle prigioni per ricevere i reclami dei detenuti ed al caso di liberarli “a suo discernimento e giudicio senza appello” meno quelli “rei dei più gravi delitti e i recidivi”.

Da questo, l’istituzione della Congregazione detta della “Visita” che operava al posto del Camerlengo. Del resto anche il Pontefice, dice il cardinale Giulio Piazza (1663-1726), nel suo diario: “manda una volta all'anno il suo Vicario o altro ministro alla visita delle medesime galere per vedere se siano i condannati sufficientemente assistiti”.

Se più numerosi risultavano i detenuti, la “visita doveva avvenire più volte la settimana, in modo che nessuno sfuggisse a quella ch’era un'ispezione non fiscale ma di pietà”.

Infatti, ad ovviare maltrattamenti da parte di chicchessia, morali e materiali, provvedeva la "Visita" che poteva fare anche “istanza perché gli ammalati venissero rilassati causa infermitatis con la fede del medico” ed ai più abbienti poteva far concedere di essere curati nelle proprie case, sorvegliati però sempre da "un aguzzino".

A Natale ed a Pasqua, con l’intervento di Monsignor Governatore, dell’Uditore di Camera dei Prelati [19], delle due arciconfraternite - della Carità, sorta nel 1518, e della Pietà de’ carcerati, più antica, avvenivano “le visite generali chiamate graziose”. “In queste adunanze si liberavano tutti quei poveri o altri detenuti per casi di grazia, tanto civili come criminali, in particolar modo quei risultanti carcerati per debito”. Restavano però esclusi i delinquenti abituali, gli adulteri, i monetari, i parricidi, i rei di lesa maestà e gl’inosservanti del sesto comandamento

Quando le notizie sulla salute del Pontefice ne facevano temere il decesso, i rei accusati di delitti gravi, dalle carceri urbane venivano trasferiti a Castello e sorvegliati strettamente.
Si prendevano tutte queste precauzioni perché “quando la campana maggiore di Campidoglio annunziava con lenti rintocchi la morte del Papa, il capitano dei Caporioni partiva dal palazzo del Senatore con uomini armati, giunto alla "Regola" prendeva la bandiera di questo rione e a suon di tamburo procedeva l'apertura delle carceri, liberando tutti prigionieri”.

Per la morte di Pio IV (Giovanni Angelo Medici - 1559-1565) dice una cronaca:
9 dicembre 1565 - La notte havanti ieri, che fu venerdì, si temeva che lo Papa fosse morto, per il ché le porte della città stettero serrate, et essendosi poi pubblicata la morte, si ridussero molte genti a Torre di Nona per veder rompere le prigioni e liberare li carcerati, siccome si costuma in tempo di sede vacante, et ne scamparono alquanti, benché i Governatore haveva fatto prima trasportare in  Castello quelli di più importanza”.

Un’altra cronaca racconta: “Per la morte del papa, alle 12 e mezzo, furono trapassati (spostati) in Castello i carcerati al numero di 62 ed altri, dopo, dalle carceri di Campidoglio”.

L’uso di annunciare con la campana maggiore di Campidoglio la morte del Pontefice, fu introdotta a Roma, dopo il ritorno dei papi da Avignone, per il decesso di Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort - 1370-1378) e continuò fino a quello di Clemente XIV (Gian Vincenzo Antonio Ganganelli - 1769-1774) [20].

Del resto, a Tordinona, le evasioni erano frequenti anche per la corruzione dei carcerieri e talvolta perfino del Bargello, ma anche Castello non ne fu immune.

Ne fa fede, fra le diverse altre, quella di Benvenuto Cellini (1500-1571) che, però, spezzatosi una gamba, fu “preso dai soldati del Bargello, e tradotto a Tordinona[21] nella "orribile prigione della Vita", da dove riuscì a ritrarnelo (a farlo uscire) Girolama Orsini (1504-1569), il giorno seguente al "Corpus Domini” del 1539.

Paolo IV (Gian Pietro Carafa - 1555-1559), dopo che Leone X (Giovanni de´ Medici - 1513-1521) aveva nel 1517 trasformato in “venale” l’ufficio del Soldanato. Concesse, alla Confraternita della Carità, l’ufficio criminale del Governatore e Pio V (Camillo Borghese - 1566-1572), con un motuproprio del 19 settembre 1568, affidò interamente alla stessa Confraternita le cure dell’intero carcere, sopprimendo “l'ufficio del Soldanato stesso, ossia capitanato, affidandone le mansioni al sodalizio suddetto”.

Il quale Sodalizio: “si obbligherà a versare 3000 ducati d'oro di Camera agli eredi di Raimondo di Capodiferro, (l’ultimo acquirente della carica), e con ciò rimarranno alla pia istituzione gli emolumenti, la giurisdizione, il governo e l'amministrazione del carcere, obbligandosi la Camera Apostolica a rimborsare le spese del vitto dei carcerati, a qualsivoglia pena corporale ed afflittiva siano condannati”.
Previde che in caso di abbattimento del carcere, che avrebbe dovuto avvenire col consenso del Protettore e dei Deputati della Compagnia, fossero a questa restituiti 3000 ducati d’oro.

Nel 1661, con chirografo del 16 febbraio: il Pontefice, Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667) pure in enfiteusi perpetua, dette alla Compagnia “omnes domos materiales di Tordinona, che prima servivano di carcere, con tutte le loro dipendenze, nessuna esclusa”, dietro corresponsione alla Camera Apostolica “di una libra di cera per sette anni, più 100 scudi annui”.

Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili ) 1644-1655), per sopprimere le carceri di Corte Savella e Tordinona affidò, ad Antonio Del Grande (1607-1679), la costruzione delle nuove prigioni in via Giulia, che furono dette per questo “le Carceri Nuove”.

Iniziati i lavori il 30 aprile 1647, furono completati nel 1655, quando, dal 7 aprile, era già papa Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667). Ma, per le condizioni sanitarie dell’Urbe, i prigionieri vi furono trasportati nel 1657.

In data 24 novembre di quell’anno, infatti, scrive un cronista: “Lunedì mattina, dalle carceri di Tordinona, vennero trasmessi alle Nuove, di strada Giulia, tutti i prigioni che vi erano, eccettuati gli infermi, e sarà parso loro di passare dalla capanna, alla villa, perché questo luogo, fabbricato con grande spesa, riesce comodissimo, di bona aria e sommamente a proposito”.

Le nuove carceri furono affidate anche loro alla Compagnia della Carità, che, prendendone possesso nel 1658, l’ebbe “in enfiteusi perpetua per l'annuo canone di scudi 800, frutti di Luoghi del Monte del Sale [22], creati per l'edificio di via Giulia, a scudi quattro  ed una libra di cera all'anno.”.

In Tor di Nona, detta Compagnia, onde ritrarne congrui affitti, ridusse, con una spesa di 6390 scudi e 47 baiocchi, i locali superiori in fienili, i medi in albergo ed inferiori in stalle e rimesse.
Pare però che l’utile, che la concessionaria ne ritraeva, non fosse per varie ragioni remunerativo ed allora, in seguito a proposte fattele, avanzò domanda al Pontefice perché permettesse la trasformazione dell’edificio in “un teatro da potervi fare le azioni pubbliche con debite licenze" e che così, "non solo detto corpo si manterrebbe di continuo affittato, ma si aumenterebbe la pigione anche proporzionata alle spese da farsi nella fabbrica, a fattura di detto teatro”.

Il conte Giacomo d’Alibert, consigliato dalla regina Maria Cristina di Svezia, prese in enfiteusi dalla Compagnia “il luogo anticamente adibito a carcere di Torre di Nona, insieme con le case adiacenti, allo scopo di edificarvi, come fece, un celebre quanto ampio teatro”.

Nel 1670 ebbe luogo l’inaugurazione con l’opera “il Clearco” del maestro Tenaglia e nel 1673, a cura della Regina di Svezia, furono, per la prima volta, introdotte le donne.

Ma Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi - 1676-1689), il papa che, fra le altre, aveva fatto sequestrare [23] dagli sbirri, nella biancheria che si stava asciugando, tutte le camice di donna con le maniche corte e basse di petto, proibì nel 1677 l’ingresso alle dame.

Peggio fece Innocenzo XII (Antonio Pignatelli - 1691-1707) che, nel 1697, ordinò la demolizione del teatro, proibendo anche ogni altra rappresentazione in Roma.

Ripristinato [24], sotto Clemente XII (Lorenzo Coesini - 1730-1740) nel 1734, fu, per accrescere la prospettiva, aperto un arcone, formando il “Ponte Reale”, che, abbassandolo insieme ad una porzione del palcoscenico, faceva vedere allo spettatore il corso del Tevere.

Nel 1781 un incendio, sviluppatosi nella parte superiore dell’edificio, distrusse il teatro, che, risorto, ad opera della capomastro Antonio Lovatti, fu inaugurato nel 1796 col nome di teatro Apollo [25].
Cento anni dopo che “nella Congregazione della Riforma per la disciplina ecclesiastica, tenuta coram Sua Santità, fu risoluto proibire le recite delle commedie in musica venali,  com’anco di guastare il teatro pubblico di Tordinona, fatto luogo due anni avanti, con grande spesa da M. Conte d’Alibert [26], che poteva paragonarsi ad uno dei più belli d'Italia”.

Non ostante l’opposizione di tutta Roma, che gridò sino alle stelle, Nostro Signore (il papa) ordinò si gettasse giù subito. I signori cardinali aderenti alla demolizione furono: Colleredo, Albani, Negroni e Sagripante. I contrari: Imperiali, Carpegna, Spinelli e monsignor Vicegerente.

Il teatro Capranica resterà in piedi perché di casa particolare (privata), “né sarà convertito ad altro uso, né si proibirà ad alcuno far commedie in privato”. E poiché le spese di esproprio furono forti, il diarista conclude: “Nostro Signore dovendo ora fare sborsare così grosse somme, strepita contro i zelanti, che lo hanno invisibilmente ingolfato in così grandi spese, contro il gusto universale” [27].

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[1] )           Pietro Aretino (1492-1556), da “La Cortigiana”: Messer Mago : “Torre di Nona suona anche il Vespro?” - Mastro Andrea : “E compieta, con i tratti di corda”.

[1bis]         La via Tor di Nona, lastricata solo al tempo di Sisto IV (Francesco Della Rovere – 1471-1484), prese, nel XV e nel XVI secolo il nome di “Via domus parmensis” dal palazzo cardinalizio fatto edificare, sul lato fiume e in asse con la via dell’Arco di Parma, dal cardinale Giovanni Giacomo Schiaffinati (1451-1497), vescovo di Parma. Sul fianco del palazzo, il cardinale aveva fatto costruire un arco che immetteva al Tevere e dal quale si svolgevano attività commerciali e transito di passeggeri per il traghetto che menava ai Prati di Castello. Tutto ciò che esisteva lungo il fiume fu demolito per la costruzione dei muraglioni del Tevere nel 1889.

[2] )           ”portum Castri sancti Angeli de Urbe” o “prope Castrum S. Angeli”.

[3] )           Sappi ch'io fui vestito del gran manto - E veramente fui figliol dell’Orsa. (Dante, Inferno, Canto 19, verso 69).

[4] )           Il nome di "Soldano" (apparteneva alla famiglia pontificia), dal quale dipendevano le carceri, sembra abbia avuto origine dalla distribuzione delle monete che egli, stando a cavallo, gettava al popolo per incarico del Papa, quando l’accompagnava nelle solenni cavalcate, che per tale ufficio teneva, a questo scopo, appesi due sacchi alla sella. Questa scena è raffigurata sul battente di destra della porta del Filarete, nella Basilica Vaticana, “circondato da vari cavalieri e con accanto un romano di casa Mancini” (Infessura, pag. 1125). L’elargizione di danaro era una volgarizzazione del "Presbiterium”. Si chiamava così un’elargizione di denaro che Roma papale soleva fare più volte all’anno, nelle feste religiose,  alla quale, qualche volta, si aggiungeva la distribuzione di viveri.. Sembra che anticamente il Soldano esercitasse anche funzioni di magistrato e di giudice “nei luoghi adiacenti al carcere, nelle cause delle meretrici e delle persone infami” per le quali le costituzioni pontificie e gli statuti urbani gli davano facoltà di procedere “de plano sine strepitu et forma iudicii”.
La carica fu conferita a nobili e perfino ad un  nepote da Pio II (Enea Silvio Piccolomini - 1458-1464) e Pio III (Francesco Nanni Tedeschini Piccolomini - 1503-1503) ed ancora sotto Paolo IV (Gian Pietro Carafa - 1555-1559). Dopo che Leone X (Giovanni de´ Medici - 1513-1521), col fitto delle carceri concesso a Raimondo Capodiferro, aveva abolito il Soldano, il “Capitaneus seu custos Turris Nonae” era fra gli “ufficiali della Corte ammessi a pane d'honore” e la sua carica è compresa nell’elenco degli “offitii di Roma et lor valuta”.
Al tempo di Sisto V (Felice Peretti - 1585-1590) vi fu un bargello per la città ed uno per la campagna che disponevano: il primo di 80 birri (spesa 320 scudi) e il secondo di 25 uomini a cavallo (con la spesa di 2500 scudi). Più tardi, per la campagna, i bargelli furono due.

[5] )          A carico della Camera Apostolica.

[6] )           La Vannozza fu sepolta in Santa Maria del Popolo, ma, la lapide tombale è finita nell’atrio di quella di S. Marco a Piazza Venezia. Le messe furono soppresse nel 1736 dalla “Congregazione della Sacra Visita”.

[7] )           Nel 1640, ad esempio, il "25 scudi di pena a chi farà a pugni senza sangue; 50 scudi con sangue. A pugni dati a gentiluomini, se con sangue pena di scudi 100, senza sangue 50". E dice il codice Ottoboni in data 21 settembre 1642: "da Sabato d'ordine di questo Tribunale fu frustata per Roma sopra un somaro una donna con epitaffio avanti, che diceva: “per finta santità”.

[8] )           “Per le spese fatte per il tavolato sopra i gradini di S. Pietro per la degradazione di un frate, fiorini undici”.

[9] )           “Alcuni nella notte si sospendono e la mattina vi si trovano sospesi a Torre di Nona, senza nome e senza causa e così oggi si vive in Roma regnando Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo - 1484-1492)”.

[10] )         L’inventore fu Gerolamo Manghino da Siena.

[11] )         Un’ordinanza di Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini - 1592-1605) stabiliva che, anche nella vita civile, gli uomini non dovessero portare i capelli lunghi: “1600 - Nostro Signore si intende che abbia dato ordine particolare al Bargello di Roma che quanti trova con ciuffi, li tagli e però detto Bargello, se trova gente di bona lega, lo fa senz’altro, ai giovani nobili però si accosta et dice l’ordine che ha et che un'altra volta non gli scontri, perché sarà forzato levargli il ciuffo non levandoselo loro, così cesserà questo brutto uso di portare il ciuffo ai giovani, il quale è solo conveniente alle donne”. (Codice Urbinate).

[12] )         Sulle streghe, vedi: "Malleus Maleficarum“ (de Jacob Spenger et Heinrich Kramer); “la Demonomania degli Stregoni” (Bodin); “Disquisitionum magicarum libri sex” (Martino Delrio); “De secretis Operibus Magiae” (Bacone); Ancora nel 1657, il 13 gennaio, si leggeva un’istruzione con la quale la Congregazione dell’Inquisizione richiamava i giudici ad una più stretta osservanza delle norme procedurali stabilite per i processi a carico delle streghe per sortilegi e malefici. (Biblioteca Vittorio Emanuele bandi, Tomo 9, pag.15). E così era fatto obbligo di denunziare al tribunale del Santo Offizio i delitti di sua competenza (eresia, maleficio, bigamia, ecc.) nonché trasgressione del precetto pasquale, del digiuno, bacio dato fino alla polluzione, concubinaggio, ecc (vedi Archivio di Stato, Volume 27).

[13] )         Dice un “Avviso di Roma” di quell’anno: che il duca di Paliano, appena introdotto a Tordinona subì la tortura e “confessò le cose più abominevoli”.

[14] )         Nell’anno 1595 “furono giustiziati, in una mattina, 30 huomini, d'ordine di Monsignor Governatore di Roma. Uno di quelli si fece dare l’elemosina da’ spettatori. La fece dare poi ad un Cursore, acciò citasse il Governatore a comparire davanti al tribunale di Dio, fra certo tempo. Il Governatore ne rise. Ma al tempo determinato morì”. (Archivio Capitolino – M.a. Valena).

[15] )         L’unico a non essere giustiziato, della famiglia Cenci, fu il giovinetto Bernardo “ut vita sit illi supplicium et mors solatium”. (Dalla sentenza del struttore e giudice maggiore, estensore della sentenza, Ulisse Moscato).

[16] )         Per la condanna di Fulvio Alberini, vedi Via di Monte Giordano - Ponte.

[17] )         Per il delitto e la condanna dei quattro fratelli Massimo, vedi Piazza dei Massimi -  Parione.

[18] )         Per il matricidio di Onofrio Santacroce e della sua esecuzione, vedi Via in Publicolis -  Sant’Angelo.

[19] )         Prelati, detti di mantelletto, sono quelli di prim’ordine, portano le calze paonazze e di mantellone, che, al contrario dei primi, gli altri portano le calze nere in città e violacee extra Urbe. Hanno tutti il collarino violaceo o paonazzo.

[20] )         Delle profezie sulla sua morte, fatte circolare quando Clemente XIV soppresse i Gesuiti con breve del 21 luglio 1773, una diceva: “C. XIV + A.V.M.A.” e veniva interpretata: “Clemente XIV morirà nell'anno V del suo pontificato, mese di agosto”.  L'altra affermava: "I.S.S.S.V.” ed era tradotta: “In settembre sarà Sede Vacante”. Al breve “Dominus ac Redemptor” di Clemente XIV riparò Pio VII (Barnaba Niccolò Chiaromonti - 1800-1823) al suo ritorno trionfale in Roma, con la bolla "Sollicitudo omnium ecclesiarum” (1814) e i Gesuiti tornarono.

[21] )         “... era il giorno passato del Corpus Domini, ed era incirca a 4 ore di notte. Questi mi portavano turato e coperto, e quattro di loro andavano innanzi, facendo iscansare quelli pochi uomini che ancora si ritrovavano per la strada. Così mi portorno a Torre di Nona, luogo detto così, e messomi nella prigione della vita...”.

[22] )         I "Luoghi di Monte", istituiti da Clemente VII (Giulio de´ Medici - 1523-1534) divisi in vacabili, cioè da estinguersi entro un tempo determinato (equivalenti dei Buoni del Tesoro attuali, annuali e pluriennali), e non vacabili, ossia perpetui (rendite), erano fondati su qualche entrata dello Stato Ecclesiastico “cioè sopra diritti, gabelle e gravezze dovute al Principe, e sono di diverse sorti e di diversi cognomi, conforme alle occasioni che da’ Pontefici per li bisogni della Chiesa e dello Stato vengono eretti. E tanto gli uffici quanto li Luoghi di Monte si vendono”.

[23] )         Anche Luigi XIII re di Francia (1610-1643) con editti promulgati tra il 1610 e il 1639 e specialmente con quello del 24 novembre di quest’ultimo anno, prescriveva il costume delle donne. Un Papa che si occupò anche lui dell’abbigliamento femminile, fu Gregorio X (Tebaldo Visconti - 1271-1276) “di volontà del Papa fur tolti alle donne le perle e certo vestire di uccelli e vietate frangiature d'oro e d'argento e recati i loro panni a misura di mezzo braccio tranne dietro” (Del Tolosa 1275). Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi - 1676-1689) fece pure rivestire la statua della verità, sul sepolcro di Alessandro VI (Rodrigo Borgia - 1492-1503).

[24] )         I teatri che funzionavano a Roma, in questa prima metà del secolo XVIII, erano: il d’Alibert o delle Dame, l´Argentina, il Capranica, il Granari, la Pallacorda, il Pace, il Valle e nei collegi: Clementino, Seminario e Nazareno.

[25] )         La cronaca, 19 gennaio 1853, scrive della prima del “Trovatore” di Verdi. Solo un giornale milanese: “Il Pirata” riferisce: “La nuova opera di Verdi, da capo a fondo applaudita. Il Maestro chiamato al proscenio 15 volte. Successo crescente nelle 17 repliche". E il giornale "Eptacordo", dieci anni dopo, in data 18 gennaio 1862: "nella sera del 14 gennaio all'Apollo si dié il Trovatore di Verdi ed una tal sera ha segnato una delle più belle epoche che si possono dare nei fasti teatrali. Se Verdi vi fosse stato ad ascoltare in teatro la esecuzione della bella e filosofica opera sua, avrebbe di certo convenuto, in accordo col pubblico romano, che questa non poteva essere migliore e che superò di gran lunga, per anco quella della sua prima comparsa, quando egli medesimo assisté alle prove e mise in scena il proprio lavoro”.

[26] )         D’Alibert lo aveva restaurato nel 1695. (Vedi decisioni rotali, Volume 116).

[27] )         Altri provvedimenti presi da Innocenzo XII (Antonio Pignatelli - 1691-1700): “17 novembre 1694 - Stabilita da Nostro Signore la riforma del lusso, che pure durò gran tempo. Si tratta ora di proibire il lusso in campagna e diminuire le carrozze e di scemare i ciuffi alle cuffie delle femmine, come troppo alti. Di più impedire alli mercanti che facciano credito; così si farebbero meno sfoggi”. (Diario Campello).

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Lapidi, Edicole e Chiese :

- Via di Tor di Nona

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